Il regista italiano Matteo Garrone è noto per aver affrontato crimini più locali e specifici, mostrando la violenza degli uomini italiani urbani coinvolti nella mafia (“Gomorra”) o basata sulla legge del più forte (“Dogman”). Sono film estremamente realistici che non lasciano spazio all’ottimismo.
Sono molto diversi dal film “Io sono il capitano”, che uscirà giovedì (29) nei cinema. Jaroni propone una sorta di parabola sulla situazione dei migranti e dei rifugiati nei Paesi africani. Violenze di diverso tipo indicano uno scenario sociale ed economico globale doloroso, che si allarga e non trova via d’uscita.
Il nemico qui non ha volto e spesso non parla la stessa lingua. In “Gomorra” e “Dogman” apprendiamo che tutti sono intrappolati in una certa realtà. In “I Am the Captain”, la ricerca per la sopravvivenza è più universale, sinonimo di cibo, alloggio e lavoro dignitoso, i diritti umani più basilari.
Garoni mette due adolescenti senegalesi in un lungo viaggio per raggiungere il Mediterraneo, dove attraversano molti ostacoli nel tentativo di sfuggire all’oppressione dell’immigrazione e vivono nelle peggiori condizioni possibili, come attraversare il deserto a piedi e essere ridotti in schiavitù da criminali opportunisti.
Estremamente ben girato (non importa quanto vadano male le cose, c’è una sorta di resilienza di fronte alla miseria africana), il film – in contrappunto al modo in cui vengono denigrati i migranti – ha un’atmosfera fantastica, che serve da respiro e migliora il cuore puro dei suoi protagonisti.
È come se Jaroni ci avesse trasportato in un altro tempo, dove l’offesa più grande è mentire alla propria madre. “Io Capitano” non lo dimostra, ma è chiaro che questa generosità viene dalle loro origini: da una parte povera dell’Africa, ma con valori che rimangono intatti.
In questo senso è interessante vedere il dialogo con i film precedenti del regista, dove la società è già inquinata. C’è un grido di speranza, soprattutto alla fine, quando accettiamo le nostre responsabilità gli uni verso gli altri.